e' difficile commentare o, piu' semplicemente, proporre qualche riflessione su un libro
scritto da una persona che si stima molto. E tu, sei proprio tra queste! C'e' sempre
bisogno, insomma, di fare "un po' la tara" sulle cose che si dicono in queste occasioni;
e quindi ti invito a fado.
Non ho preparato caro Alfio, una scaletta di considerazioni ordinate, ma soltanto
alcuni appunti annotati diligentemente che ti offriro' alla rinfusa, come si dice dalle
"nostre" parti, la splendida - specie in questa stagione, sono certo che converrai -
Valle Esina.
Te le proporro', come diresti tu, un po' cognitivamente e un po' emotivamente; o, come
piace dire a me, un po' di "pancia" e un po' di "testa".
Ti dico subito che il tuo libro mi e' piaciuto tanto. Davvero! E ci tengo anche a dirti
subito che la sua lettura mi ha dato un forte e profondo senso di serenita'. L'ho letto scorrendolo piu' volte tra le mani con la testa che vagava e che diventava un contenitore
- o meglio, quasi una sala da cinema - che proiettava in continuazione immagini,
ricordi, profumi, decisioni, conflitti, contraddizioni e paradossi che scaturivano dalla
mia vita talvolta ordinata e trasparente, tal'altra sconclusionata e opaca.
Ma ho vissuto questa proiezione, appunto, con un profondo senso di serenita' al quale,
aggiungo, si e' accompagnato un altro stato d'animo: la gratitudine.
Gratitudine perche' il tuo libro si fa leggere; e' accogliente; e' un libro che ti porta per
mano. E non e' un caso, credo, che tu abbia scelto un genere a cio' appropriato, seppur
difficile da maneggiare: quello di una lunga lettera scritta' al lettore...il tuo "Percorso
magico" diventa allora una conversazione molto bella, ritmata da pacatezza e serenita';
scritta senza fronzoli e senza sconti, perche' vera e genuina. Una conversazione come
quelle che raramente ormai - come sai bene - si fanno sia fuori che dentro i contesti
organizzativi.
Ti devo dire un' altra cosa. Appena ho iniziato a leggere il tuo libro e' scattata subito in
me un'associazione. Mi e' venuto in mente, e con piacere, un altro personaggio - autore
che stimo e amo molto pur non conoscendolo personalmente: Vittorino Andreoli. Provo
a raccontarti perche'. Ci sono almeno tre ragioni. La prima e' che Andreoli ha adottato
negli ultimi anni, almeno in un paio di occasioni, il genere letterario da te utilizzato in
questo libro. Ha scritto infatti Lettera alla tua famiglia (rivolgendosi al lettore
adolescente) e Lettera a un insegnante, dove affronta con grande competenza,
semplicita' e umanita' i temi - a te cari, come a me - dell' educazione. La seconda
ragione per cui la lettura del tuo libro mi ha richiamato questo grande psichiatra e'
proprio l'umanita' che esce fuori da ogni pagina; cosi' come "deborda" da ogni pagina
che tu hai scritto. La terza ragione dell'associazione che ti propongo, infine, e forse piu'
profonda, e' questa che ora ti dico. Vittorino Andreoli in un libro appena uscito, L'uomo
di vetro, dedicato ai matti che ha incontrato nella sua vita e professione, intitola il
paragrafo di apertura: Fragilita' e condizione umana e scrive:
"Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilita', di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi
vedono... non voglio mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere".
Tu fai una cosa analoga. Nel tuo Invito al lettore ci getti sul tavolo la tua "lunga attivita'
di psiocologo-formatore e di psicoterapeuta" che ti ha portato a contatto con una
realta' profondamente umana ed esistenziale: l'infelicita' delle persone di questa nostra
societa'. Tema che diventa empaticamente tuo e che ci vuoi narrare per scoprirne le
ragioni ed individuare i percorsi utili a migliorare questo stato.
Ma lo fai al pari di Andreoli, con la tua fragilita'; e scrivi: di farlo "senza certezze".
Anche se poi, in verita', leggendo il tuo volume, di certezze ne hai e ne proponi e
condividi con il Lettore molte e una in particolare che richiamero' fra un momento.
E' questa la prospettiva che piu' mi ha affascinato e toccato di quello che ci proponi con
tanta passione. e' da qui che nasce e trova poi alimento anche la gratitudine da cui sono
partito. Quella che ci proponi, vivaddio, non e' la prospettiva del vincente, ma la
prospettiva invece - affatto diversa - dell'uomo. E in questo mondo di veline, di
vincenti, di show-business, di riflettori e cineprese non e' proprio poco! La tua
prospettiva e' quella di chi ci dice - partendo dalla infelicita' e dalla fragilita'.- che la
"vita e' un dono incredibile che tutti abbiamo in mano". Quanto e' bello questo che
scrivi! e' questa la certezza a cui sei profondamente ancorato e che ci trasmetti.
Ci si puo' stupire di fronte a questo e alla pacatezza con cui riesci, passo dopo passo in
questa passeggiata narrativa di calviniana memoria, a illuminare,questa verita'.;che la
vita, cioe', e' un dono che va gustato tutto; lentamente, senza fughe in avanti, rispettando
i cicli e "i tempi dell'orologio e quelli dell'anima", ricercando l'equilibrio tra il
lavoro e il "non lavoro".
Mi soffermo un attimo sul tempo. Quella del tempo e' una dimensione che tu declini in
piu' modi ed e' ricorrente in tutto il libro. e' una dimensione anche a me molto cara su cui
vado riflettendo... "da tempo" e che considero una dimensione essenziale anche nei
contesti organizzativi e manageriali. Ho scritto al riguardo qualche riflessione e magari,
una volta e con calma, avro' modo di "imbastire" con te una "passeggiata narrativa" su
questo tema. Mi limito ora solo a proporti un paio di considerazioni.
Il "tempo" si presenta - anche nella dimensione organizzativa - molteplice e
"sfaccettato". Oggi pero' ce n'e' una tra queste che prevale - e lo ricordi chiaramente - e
che coinvolge il management e le persone: e' quella dei ritmi della competizione, quella
imposta dai mercati dei capitali, dalle relazioni trimestrali e cosi' via. La velocita' allora
da competenza buona sembra assumere troppo spesso i toni e le ansie della "fretta" e
dei suoi immancabili rischi di gestione. E tu sei ben conscio di questo: ne cogli tutta la
drammaticita' umana e psicologica. Insomma, ci riproponi -anche se non la citi
espressamente, ma per me l'associazione risulta immediata -la potente domanda che
nella Bibbia ci pare Qoelet:
"Quale utilita' ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?"
E per mano - come scrivi - ci accompagni dentro un'altra verita' che sempre Qoelet,
qualche passo piu' avanti, ci svela:
"Per ogni cosa c'e' il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo"
Non ho sottolineato ancora, poi, che questa passeggiata narrativa che ci offri la conduci
con tutta la competenza di uno psicologo e psicoterapeuta che conosce a fondo anche le
dinamiche organizzative, sociali e personali negli ambienti di lavoro. "Percorso
magico" ha anche la capacita', in effetti, di rimettere un po' a posto queste complesse
dinamiche, con semplicita' e con una chiarezza straordinaria. E' una camminataconversazione
che si muove tra determinanti il comportamento organizzativo,
motivazione, tratti, autoefficacia, attitudini e strategie motivazionali soggettive e cosi'
via. Concetti e teorie difficili che temi - con molto understatement e citando con
leggerezza e sommessamente in qua e la' nel testo qualche autore, Fromm prima di tutti
- di semplificare e per questo motivo hai paura di prenderti il rimprovero
dell'ortodossia! Pensavi all'accademia? A qualche collega pronto a fare le pulci e
mettere tanti distinguo? Ma non e' questo il terreno su cui ti muovi. Non hai voluto
scrivere un libro scientifico per le universita', per l'accademia e per gli studenti che
devono prepararsi a un esame. Hai voluto regalare un libro alle tante.p~rsone s~arritee
infelici che hanno difficolta' a capire questo dono meraviglioso che hanno tra le mani: la
vita. Che bello allora, quando declini con un bel passaggio quello che al bar diremmo
con un semplice: "sti ...". Mentre rimugini sui rischi delle critiche e dei rimproveri che
ti si potranno fare infatti scrivi:
"Pazienza, vai bene correre questo rischio, se parlare un linguaggio semplice, accessibile a tutti
significa rendere comprensibili i concetti e le idee che si vogliono trasmettere, comprendendo meglio i
problemi di cui ci si sta occupando".
Quante altre cose mi piacerebbe poterti scrivere, caro Alfio. Mi limito - se me lo
consenti ancora - ad un altro paio di considerazioni.
La prima che voglio fare ha a riferimento i capi. Intrattieni il Lettore in piu' parti del
libro su questo tema cruciale per il benessere e per la qualita' della vita personale e
sociale. E non gli nascondi che non hai mai avuto... un gran rapporto con questi signori
spesso troppo sicuri e potenti. Anche questo e' un tema a me molto caro e su cui ho
proposto strada facendo qualche riflessione. In particolare mi ha sempre intrigato la
questione della generosita' dei capi su cui ti intrattieni qua e la'. La generosita' - secondo
me - e' una grande competenza di cui gli ambienti organizzativi e la societa' in generale
sono poveri, anzi molto poveri. E' una competenza che scarseggia e che invece avrebbe
la capacita' di sanare tante ferite e dare molto sviluppo. La generosita' poi - malgrado
qualcuno possa pensare che sia "fuffa", come si dice a Roma -in verita' non e' per nulla
astratta e prende forme molto concrete nella relazione organizzativa e nelle relazioni
con i capi. Anche un sorriso che ti rinforza e' generosita' e uso di una competenza del
capo.
Anche un richiamo che vuole posizionare un modello di comportamento e' generosita' e
uso di una competenza necessaria. E' invece ingeneroso quel capo che cerca solo
accondiscendenza e percorsi collusivi. Cosi' 'come e' generoso e competente quel capo
che non monopolizza le discussioni costruendo ambienti che rispettino gli altri e che
lascia il primo posto anche agli altri.
E si potrebbe continuare, perche' nel tuo libro c'e' un'infinita' di spunti utili per declinare
la competenza della generosita' dei capi; quella di cui mancano le organizzazioni.
Perche' il "capo" - indubbiamente - e' uno dei protagonisti ed ispiratori del tuo libro.
e' che dire poi, sempre a proposito dei capi, delle pagine che hai scritto sull'ascolto?
Quanta formazione si fa e quanta se ne spreca perche' non e' diretta aformare su questo
aspetto essenziale della vita!
Caro Alfio, ti propongo davvero un'ultima riflessione sulla parte pre-finale de'l tuo bel
volume. Qui ci proponi una lettura psicologica e laica, come la chiami, di alcune
parabole di Gesu' da Nazareth che aveva - cosi' scrivi - "idee molto chiare e molto
valide" sulla "qualita' della vita". Di questa lettura sulle parabole ric~amo du~ o tre
cose per sottolinearti la bellezza di questa passeggiata narrativa iD'cui'conduci II lettore.
Mi ha colpito molto la riflessione che proponi a commento della parabola del ''figliol
prodigo" che rileggi come metafora della necessita' che si vivano le esperienze con
autonomia e indipendenza. "L'indipendenza - scrivi - non significa disobbedienza,fare
le cose contro qualcuno". E il padre della parabola che festeggia il ritorno del figlio
assume la veste - secondo la prospettiva che ci proponi - di un "liberatore" che rispetta
i tempi psicologici di crescita. Che bello! Complimenti davvero.
Molto bella e' anche la riflessione della parabola del buon samaritano; la proponi per far
comprendere la potenza dell'amore oblativo che non chiede niente; quell'amore
oblativo che e' segno di contraddizione - direbbe sempre Gesu' di Nazareth - rispetto al
"dare strumentale" di cui e' pieno il mondo e i nostri comportamenti dentro e fuori le
organizzazioni.
Caro Alfio, concludo davvero sottolineando quello che a me sembra essere il
messaggio di fondo che vuoi dare e che inviti a perseguire con fiducia e coraggio.
Guai ai ''progetti di morte" - a un certo punto scrivi - e guai ai "necrofili", cioe' a chi li
progetta e chi li attua, sia sulla dimensione sociale che personale! La vita e' un dono
straordinario e un "progetto di vita" che non puo' basarsi sul denaro, sul potere, sul
successo. Altrimenti la condanna e' che si rimane "soli", quando invece il mondo ha
bisogno di solidarieta'.
E questo e' a pensarci bene - come scrivi - il vero peccato dell'uomo; quel peccato che
- secondo il suo significato etimologico - non ci fa colpire il bersaglio e quindi non ci
rende conformi alla natura umana, nella prospettiva laica, o - in quella della fede - non
ci rende conformi al disegno divino.
Roma, 23 aprile 2008
Gabriele Gabrielli